Shanfara




Thābit ibn Aws (o Malik) al-Zahrānī al-Aoasi (Arabo ثابت بن الأواسي), più noto con il soprannome di al-Shanfarā al-Aoasi (Arabo الشنفرى الأواسي), o semplicemente al-Shanfarā (Arabo الشنفرى) (V secolo – 525) è stato un poeta arabo pre-islamico degli aghriba, ossia dei "corvi", così chiamati per via del colorito scuro della loro pelle.




Indice






  • 1 Biografia


  • 2 Poetica


  • 3 Influenze


  • 4 Note


  • 5 Bibliografia





Biografia |


Thābit bin Malik faceva parte dei Banū l-Iwās b. al-Ḥajr b. al-Aws, del lignaggio dei bin al-Ḥārith bin Rabīʿa, del ramo minoritario dei bin al-Hinw, appartenenti a loro volta al gruppo tribale dei bin al-Azd. Si ritiene che il suo soprannome, al-Shanfarā al-Azdī, significhi "dalle labbra tumide". Sembra sia vissuto immediatamente prima della diffusione dell'Islam, tra la fine del VI e gli inizi del VII secolo. Appartenente alla tribù degli Azd, fu dalla sua stessa tribù messo al bando (di solito ciò avveniva per gravi colpe, come un omicidio) ovvero preso prigioniero dai Banū Shabāba b. Fahm b. ʿAmr dei Banū Qays b. ʿAylan per essere poi riscattato non già dalla sua tribù ma da quella dei Banū Salāmān, anch'essi dei Banū al-Azd.


Shanfarā avrebbe condotto un'esistenza solitaria nell'inospitale deserto dell'Hijaz. La leggenda vuole inoltre che egli avesse giurato di vendicarsi dei torti subiti dai membri della tribù che lo aveva riscattato, rei di avergli negato il matrimonio con Quʿsūs, figlia di un sayyid dei Banū Salāmān, uccidendo cento dei suoi antichi compagni. Sarebbe però morto dopo averne uccisi solo novantanove, anche se il suo teschio, insepolto e sporgente dal suolo, avrebbe causato la caduta e la morte del centesimo, permettendo così al poeta di compiere, postuma, la propria vendetta.



Poetica |


La sua poesia è quella di un ṣuʿlūk, un "poeta vagabondo e brigante", il che lo accomuna ad altri grandi personaggi del mondo poetico della Jāhiliyya, come suo zio materno Taʾabbaṭa Sharran o ʿUrwa b. al-Ward, anch'essi reietti dalla loro tribù e raminghi solitari per il deserto.


Pochi sono i versi, circa 191, che di lui ci rimangono[1]. In particolare, la sua poesia più celebre è la lāmiyyat al-ʿArab: "Poesia in rima lām[2] degli Arabi", una qaṣīda di 68 distici, notissima fra gli arabi, per i suoi versi incalzanti e per il suo rude e folgorante incipit, in cui descrive se stesso e la propria vita nel deserto:


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(AR)

«Aqīmū banī ummī ṣudūra maṭiyyikum
fa-innī ilā qawmin siwākum laʾamyal[u ...]»


(IT)

«Uomini della mia tribù, fate drizzare i petti delle vostre cavalcature (e partite),
ché io verso altra gente che non voi son più incline [...]»



oppure quando descrive la fame che sempre lo accompagnava in quelle inospitali contrade:






(AR)

«Udīmu miṭāla l-jūʿi ḥattā umītahu
wa-aḍribu ʿanhu ḏ-ḏikri ṣaqtaḥan fa-aḏhal[u]
wa-astaffu turba al-arḍi kayla yarā lahu
ʿalayya min aṭ-ṭawli [i]mrūʾun mutaṭawwil[u]»


(IT)

«Io inganno ostinatamente la fame tanto da ammazzarla,
e la passo sotto silenzio sì da distrarmene.
Arrivo a trangugiare il limo della terra, perché per la mia fame il ricco benefico
non debba con la sua generosità guardarmi dall'alto in basso»





È la sua una poesia piena di immagini naturalistiche, come quando descrive le "giornate di canicola, dal barbaglio fondente, in cui le vipere si torcono sui ciottoli arsi dal sole", o quando paragona la propria vita a quella dello sciacallo:









«E parto al mattino dopo un magro pasto, così come parte un grigio-argenteo sciacallo dai magri fianchi, che passa di deserto in deserto;
incede errando affamato contro vento, calando sui fondovalle in trotterellante corsa,
e quando il cibo lo distoglie da dove prima lo cercava, egli lancia un appello e gli rispondono gli smagriti suoi simili;
sottili come falce lunare, bianco-grigi nei volti, vibranti come frecce agitate da un giocatore di maysir[3]»


(traduzione di Francesco Gabrieli)

Asciuttamente amari i versi sulla sua futura morte, a dimostrazione del diffuso stoico fatalismo dei beduini arabi della jāhiliyya:









«Non seppellitemi, ché il seppellirmi è a voi vietato!
Rallegrati tu, invece, o iena.
Se portate via la mia testa, e nella testa sta il meglio di me,
sia abbandonato sul luogo dello scontro il restante mio corpo!
Non mi aspetto colà una vita che m’allieti ma una notte insonne,
bandito per le mie colpe»


(K. al-aghānī, XXI, p. 188, trad. di F. Gabrieli)


Influenze |


Una qaṣīda di Shanfarā è stata utilizzata dal gruppo musicale italiano Area
per il testo della canzone Il bandito del deserto dall'album 1978 gli dei se ne vanno, gli arrabbiati restano! (1978).



Note |




  1. ^ Sue sarebbero state anche una tāʾiyya, ovvero poesia in rima tāʾ (la lettera "ti" dell'alfabeto latino) e una fāʾiyya, ovvero poesia in rima fāʾ (corrispondente alla lettera "effe").


  2. ^ La elle dell'alfabeto arabo.


  3. ^ Un procedimento per la spartizione delle carni edibili di un animale, per lo più un dromedario, mediante una cerimonia di estrazione a sorte (qurʿa) di frecce o bastoncelli (belomanzia).



Bibliografia |



  • Abū l-Faraj al-Iṣfahānī, Kitāb al-aghānī (Libro dei canti), XXI, Il Cairo, Būlāq, 1905

  • al-Shanfarā, Dīwān, in: Dīwān al-ṣāʿālīk (Canzoniere dei poeti del deserto), Beirut, 1992

  • Shànfara, Il bandito del deserto, a cura di Francesco Gabrieli, Firenze, Fussi, 1947


  • Francesco Gabrieli, "Taʾabbaṭa Sharran, Shanfarā, Khalaf al-Aḥmar", in: Rendiconti dell'Accademia Nazionale dei Lincei, classe di scienze morali, serie VIII (1946), I, pp. 40-69


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